I. Trattenere per non perdere (e perdersi)
In tutte le epoche aziendali, trattenere i migliori è stato considerato un segno di maturità organizzativa. È un riflesso che appare logico: chi cresce, va preservato. Eppure, proprio questo impulso apparentemente virtuoso può diventare una delle distorsioni più pericolose nei sistemi strutturati.
Nel 1983, Steve Jobs propose a John Sculley — allora presidente di Pepsi — di unirsi a Apple con una frase diventata celebre: “Vuoi vendere acqua zuccherata per il resto della tua vita o venire con me a cambiare il mondo?” Il punto però è che solo due anni dopo, fu lo stesso Sculley a orchestrare l’espulsione di Jobs dalla sua creatura. Apple non seppe reggere il peso del suo talento: invece di accompagnarne la traiettoria, provò a contenerlo. Il risultato? Una crisi interna e una stagnazione strategica durata anni. La lezione? Trattenere non sempre produce consolidamento: può generare frattura interna, difesa e indebolimento strutturale.
Le organizzazioni, specie quelle di medie dimensioni, tendono a “tenere dentro” chi produce, chi eccelle, chi crea movimento. Ma raramente si chiedono se quel trattenere stia alimentando la forma o solo proteggendone l’immagine. In molte PMI italiane, ad esempio, la figura del “capo storico” o del “collaboratore chiave” viene tenuta in posizione per anni senza ridefinizione critica del ruolo, solo per paura di perderne le competenze. Il risultato? Un blocco della mobilità interna, un irrigidimento dei ruoli e una sottile delegittimazione dei nuovi ingressi. La struttura comincia a girare su se stessa.
Trattenere può essere un gesto di intelligenza, certo. Ma anche di fragilità. Una strategia che — se non viene riletta con lucidità — rischia di sostituire la progettualità con il possesso. E le organizzazioni che trattengono per non perdere, molto spesso, finiscono per perdersi esse stesse nella replica di ciò che erano.
II. Il talento non è stabile. E l’organizzazione non dovrebbe esserlo
Ogni impresa che ragiona sul lungo termine sa che il talento non è un dato. È una forza in movimento. E come tutte le forze in movimento, prima o poi incontra un limite: culturale, progettuale, spaziale. È in quel momento che l’organizzazione ha una scelta da fare — e non è tecnica. È culturale.
Prendiamo un caso concreto: nel 1999, Reed Hastings, CEO di Netflix, cercò di fondere la sua allora piccola azienda con Blockbuster. La proposta fu respinta con sufficienza: Blockbuster non vide alcun valore nel “piccolo progetto digitale” che sarebbe diventato, di lì a poco, il simbolo della rivoluzione dello streaming globale. Blockbuster aveva dentro di sé talenti brillanti, persone capaci di innovare. Ma la struttura non li seguì. Li trattenne nei confini della logica distributiva, nei limiti del modello fisico. Il talento, non trovando lo spazio per esprimersi, si spense o se ne andò. Il resto è storia.
Questo non è un errore marginale. È un problema sistemico.
Nel pensiero organizzativo tradizionale, si assume che l’impresa sia una forma stabile dentro la quale il talento deve “adattarsi”. Ma il talento — se è davvero tale — non si adatta: trasforma, altera, eccede. E se la struttura non è progettata per accogliere l’eccedenza, finisce per soffocarla o per trattenerla artificialmente, fino alla sua neutralizzazione.
Uno dei casi più emblematici nel contesto italiano è quello delle grandi aziende editoriali negli anni Duemila, che, nel tentativo di trattenere le proprie firme storiche, hanno disincentivato la crescita dei nuovi autori interni. Il risultato è stato duplice: la perdita progressiva di autorevolezza e la crisi della reputazione interna. Tenere dentro non ha significato rafforzare, ma congelare.
Se il talento è una traiettoria e l’organizzazione un sistema vivo, allora trattenere non può più essere un automatismo. Deve diventare una decisione strutturale consapevole, con parametri chiari e visione trasformativa. Altrimenti, si finisce per proteggere ciò che ha funzionato, impedendo l’emergere di ciò che potrebbe ancora accadere.
III. Lasciare andare non è cedere, è comporre un’altra forma
L’atto di lasciare andare una figura chiave non è, come spesso si crede, un gesto di perdita. È un’operazione strutturale che, se compiuta con consapevolezza, può diventare una leva potentissima di ricomposizione organizzativa.
Ciò che si rompe, se accolto e nominato, può indicare dove la forma stava cedendo da tempo, e dove serviva nuova energia, nuovo spazio, nuove tensioni.
Un esempio emblematico viene dalla storia di IDEO, la celebre società di design thinking americana. All’inizio degli anni 2010, Tim Brown — CEO e figura visionaria — scelse di lasciare spazio a nuove leadership interne, non perché costretto, ma perché riconobbe che il modello stesso di IDEO, basato sulla fertilità delle relazioni e sulla discontinuità creativa, necessitava di una voce diversa. Non fu una ritirata, ma un atto compositivo: un ridisegno della presenza, un gesto di alleggerimento per fare posto.
Il risultato fu un rilancio strategico, un’espansione progettuale verso modelli ibridi tra consulenza e trasformazione organizzativa.
Anche nel mondo sportivo i casi abbondano: quando nel 2013 Alex Ferguson lasciò il Manchester United dopo 26 anni, il club — pur nel trauma iniziale — aveva alle spalle una transizione pianificata, e una cultura che sapeva distinguere tra identità e continuità. Quello che veniva lasciato non era il “posto” di Ferguson, ma la possibilità di una nuova struttura che si sarebbe misurata con lo spazio lasciato dal suo gesto.
In ambito aziendale, questo tipo di maturità è ancora raro.
Troppo spesso si confonde la stabilità con la permanenza.
Ma un’organizzazione che sa evolvere è quella che non trattiene ciò che ha già trasformato il sistema una volta, e che ora — per sua natura — deve generare trasformazione altrove.
Non si tratta di sacrificare. Si tratta di lasciare accadere l’espansione.
È questo il punto che distingue le imprese evolutive dalle imprese difensive:
le prime lasciano andare senza perdere sé stesse,
le seconde trattengono tutto, e lentamente si contraggono fino a somigliare solo a ciò che non hanno voluto perdere.

IV. Retention non è tenere: è sapere quando si è già oltre
Nel vocabolario HR contemporaneo, “retention” è una delle parole più abusate.
Spesso viene usata come sinonimo di successo gestionale: se le persone restano, allora il sistema funziona. Ma questa equazione è fragile. Le persone possono restare per motivi opposti alla salute organizzativa: incertezza, stagnazione del mercato, scarsa mobilità interna, fidelizzazione passiva.
E quando il rimanere è una forma di inerzia ben mascherata, diventa tossico: non genera valore, ma frizione interna non dichiarata.
La vera retention, in una visione matura, è una pratica di lettura.
Significa osservare i segnali lenti della struttura: capire se la permanenza di un talento sta ancora alimentando le geometrie relazionali, oppure se le ha già superate.
In questo senso, trattenere dovrebbe essere una scelta temporanea e continuamente rivisitata, non un obiettivo strategico permanente.
Il caso di W. L. Gore & Associates, azienda americana nota per l’invenzione del Gore-Tex, è illuminante. In Gore non esistono job title formali, e i ruoli evolvono secondo ciò che chiamano “natural leadership”: le persone crescono finché la struttura li riconosce spontaneamente come riferimento. Quando questo equilibrio si spezza — e qualcuno resta perché non sa dove andare, o perché gli viene chiesto di restare per “proteggere la coesione” — la cultura interna prevede una rotazione proattiva: la posizione viene ridisegnata, oppure viene facilitata una transizione esterna.
Non per abbandono, ma per sostenere la forma viva della rete interna.
Retention non significa “non farli scappare”.
Significa mantenere una frequenza compatibile tra la soggettività in crescita e il ritmo dell’organizzazione.
Ed è in questo equilibrio ritmico che si gioca la vera sostenibilità del talento.
Più che una policy, la retention dovrebbe essere una funzione temporale, simile a quella del respiro: trattenere quando serve espandere, lasciare andare quando serve alleggerire.
Ogni trattenimento eccessivo è una apnea organizzativa.
E le imprese che trattengono troppo a lungo, smettono di ossigenarsi.
V. Trattenere per interdirsi la trasformazione: l’auto-sabotaggio organizzativo
Ogni atto di trattenimento è, in ultima analisi, un’operazione sul desiderio. Non sul desiderio dell’altro — il talento — ma su quello più inquieto e meno dichiarabile dell’organizzazione stessa: il desiderio che nulla cambi davvero. Trattenere chi evolve diventa allora una strategia inconscia per congelare il tempo, per negare la fine di una forma identitaria che rassicura. Non è fedeltà. È fobia della transizione.
Ma ciò che non si lascia trasformare — ciò che non si lascia morire — genera sintomo. E il sintomo, nel linguaggio aziendale, si manifesta sotto forma di stagnazione funzionale, disallineamento implicito, vuoto simbolico nei ruoli chiave. I talenti trattenuti non crescono: si ripiegano. L’organizzazione, anziché essere luogo generativo, si trasforma in struttura difensiva. Come in una costellazione narcisistica, il soggetto — l’impresa — non tollera che qualcosa possa eccedere il suo orizzonte di controllo. E così lo trattiene. Lo richiude. Lo annulla nella sua differenza.
C’è una verità scomoda: i talenti migliori non chiedono di essere trattenuti. Chiedono di essere ascoltati nella loro tensione. E la loro tensione, spesso, è quella di chi ha già superato la struttura, anche se continua ad abitarla. Riconoscerlo non significa rassegnarsi a perdere valore, ma accettare che la forma dell’organizzazione non è più adatta a contenerne lo slancio. Significa — ed è qui l’atto più maturo — disidentificarsi da ciò che ha funzionato, per lasciare accadere la possibilità di una nuova articolazione interna.
È una logica di perdita apparente. Ma nel suo fondo, è un gesto di altissima responsabilità.
Perché ogni talento che se ne va senza essere trattenuto diventa — per chi resta — una domanda sulla propria permanenza.
E ogni organizzazione che sa lasciar andare senza paura si consegna a un tempo nuovo, non come regressione, ma come accesso a una struttura più ampia, più vulnerabile, e dunque più capace di relazione reale.
La selezione verticale non serve solo a scegliere chi entra.
Serve a riconoscere quando un’intera traiettoria ha esaurito la propria funzione.
E quando lo si vede davvero, trattenere diventa un atto non più tecnico, né strategico.
Diventa un modo per negarsi l’opportunità di diventare altro.
VI. Quando serve più di una ricerca, serve una posizione
In Selèct non costruiamo short list.
Costruiamo letture.
Non ci interessa riempire ruoli con profili “ideali”.
Ci interessa capire che forma sta cercando di emergere, e in quale punto della struttura organizzativa quella forma è ancora irriconoscibile.
La selezione non è per noi una pratica di chiusura, ma un gesto di apertura strutturale.
Per questo non selezioniamo “per”.
Selezioniamo con.
Con chi ha il coraggio di ammettere che un’organizzazione viva è fatta di pressioni incompatibili da ricomporre, non di figure da sostituire.
Con chi ha già capito che trattenere può essere una forma raffinata di resistenza al cambiamento.
Con chi non cerca “candidati migliori”, ma costellazioni di senso nuove da generare.
Se stai selezionando qualcuno per mantenere ciò che sei, probabilmente non sei il nostro interlocutore.
Se stai selezionando qualcuno perché sei pronto a diventare altro, scrivici.